Il trattamento psicoterapico dei disturbi di personalità in comunità (R. Cafiso)

IL TRATTAMENTO PSICOTERAPEUTICO

DEI DISTURBI DI PERSONALITÀ IN COMUNITÀ

            Il trattamento psicoterapico dei disturbi sull’Asse II del Dsm IV è certamente più impegnativo e ricco di incognite rispetto a quelli elencati sull’asse I e ciò per una serie di motivi che in primo luogo riguardano •1a natura strutturale dei d.d.p, la loro resistenza ai trattamenti e la recidività.

I dati sperimentali e la ricerca non sono ancora in grado di fornire evidenze, sia per la difficoltà diagnostica, sia per la complessità del disegno sperimentale e del suo controllo. Sappiamo dai resoconti clinici di approcci psicoterapici cognitivo-comportamentali che questo trattamento ha efficacia. I pochi studi controllati hanno in verità di mostrato l’efficacia dell’approccio ma in percentuale più limitata.

DoBSON e PUSCH (1993) al riguardo sostengono la cautela che deve essere posta nella divulgazione di esiti di ricerche sulla pratica clinica con i d.d.p. In particolare appare evidente che mentre con sintomatologie relative all’asse I, la terapia cognitivo-comportamentale risulta valida in tempi brevi, quelle complicate con un disturbo dell’asse II, presentano solo lievi miglioramenti (TURNER, 1987).

Sono noti d’altra parte gli studi di MAVissAKALIAN e HAMMAN (1987) che hanno comparato il buon esito di una terapia comportamentale breve nel 75% dei casi su pazienti agorafobici, rispetto al 25% quando gli agorafobici presentavano contemporaneamente un d.d.p..

Lo stesso è rilevabile nelle doppie diagnosi ove è presente un problema di abuso di sostanze. Il trattamento psicoterapico, in ambiente protetto, risulta particolarmente efficace nelle dipendenze sostenute da quadri clinici tipici dell’asse I, mentre appare incerto e costellato da recidive laddove vi è una base personologica riferibile ad un disturbo antisociale di personalità, borderline o misto.

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‘Psicoterapeuta, direttore del servizio di psicologia epsicoterapia dell’Asl8 di Siracusa e supervisore della comunità terapeutica “Rinascita”

Formazione Psichiatrica n. 1 e 2 Gennaio-Giugno 2007

            Alcuni autori tuttavia (DREESEN, ed altri, 1994, MERSCH, JANSEN, ARNTZ, 1995) hanno prodotto studi nei quali hanno osservato l’ininfluenza di un d.d.p. sull’esito di un trattamento per un problema diverso. É stato altresì ribadito che l’inefficacia terapeutica sui disturbi dell’asse II sarebbe determinata dall’abbandono precoce della terapia da parte di questi soggetti, mentre coloro che proseguono (PERSON, BURNs, PERLOFF, 1988; SANDERSON, BECK, MCGiNN, 1994) riescono ad ottenere discreti risultati.

            Alcuni autori pensano che risultati evidenti sul trattamento di sintomi sull’asse I possano determinare un effetto alone positivo per il paziente che, sviluppando un “buon rapporto” terapeutico, proseguirebbe la sua psicoterapia sino ad ottenere miglioramenti anche per i suoi problemi relativi all’asse II.

            In verità l’efficacia di un trattamento cognitivo-comportamentale, così come altri approcci, dipende da un numero elevato di variabili. Non è detto cioè che sia un d.d.p. a complicare il buon esito della terapia, considerato anche che con altri pazienti non affetti da un d.d.p. quest’approccio non necessariamente funziona al meglio. La questione va in parte ricondotta all’efficacia della psicoterapia in genere e dunque il tipo di relazione che all’interno di quest’approccio s’instaura tra terapeuta e paziente.

            In uno studio condotto per cinque anni su 11 soggetti ospiti presso la Comunità Rinascita affetti da comorbilità (dipendenza da sostanze e un d.d.p. prevalente) è stata rilevata l’efficacia della terapia cognitivo-comportamentale, ed in particolare il modello R.E.B.T. di A. ELLIS in 7 casi.

Paziente M/F Età Dipendenza da d.d.p prevalente Durata

del tratt.

Esito Follow up
P.L. M 30 Eroina-cocaina Narcisistico 32 mesi

+

+ a 36 mesi
*C.P. M 24 Cocaina-cannabis Bordeline 29 mesi

+/-

mancante
S.B. F 27 Eroina-cocaina Bordeline 28 mesi

+

+ a 8 mesi
M.M M 40 Alcol, g. d’azzardo Narcisostico 29 mesi

+

+ a 8 mesi
F.M. F 30 Cannabis, alcol Bordeline 23 mesi

-

-
S.M. M 25 Cocaina Antisociale 12 mesi

-

-
S.T. M 32 Eroina Antisociale 30 mesi

+

+ a 16 mesi
V.C. F 24 Eroina-alcol Paranoide 19 mesi

-

-
T.D. M 31 Cocaina Antisociale 30 mesi

+

+ a 32 mesi
R.R. M 29 Cocaina-eroina Schizoine 30 mesi

+

+ a 20 mesi
Z.T. M 28 Cocaina-eroina Antisociale 30 mesi

+

+ a 8 mesi

* C.P. ha avuto un esito di trattamento sufficiente, ma non è stato possibile verificarlo nel tempo. Pertanto esso non viene preso in considerazione ai fini dello studio.

Cafiso R: Il trattamento psicoterapeutico dei disturbi di personalità in comunità.

            Gli esiti positivi riscontrati alla fine del trattamento hanno previsto un follow up che in due casi ha confermato i risultati oltre i due anni. Il follow up prendeva in considerazione parametri quali la stabilità e l’autonomia lavorativa, affettiva e relazionale, oltre agli eventuali episodi d’abuso o di scompenso psicopatologico.

            Si basava su un’intervista strutturata, incrociata con un congiunto di riferimento. Tutti gli undici soggetti considerati presentavano sull’asse I, oltre alla dipendenza da stupefacenti (in un caso si trattava di una patologia compulsiva riconducibile al gioco d’azzardo patologico), problemi d’ansia (8 su 10), dell’umore (9 su 10), ossessivi (4 su 10), fobici (3 su 10).

            Com’è possibile osservare la psicoterapia in ambiente protetto ha avuto per il campione considerato una durata media di oltre due anni. Se rapportiamo questo periodo alla durata di un trattamento ambulatoriale — tipo, appare evidente la difficoltà nel trattare compiutamente un d.d.p. (specie se complicato da altro problema) per il controllo delle variabili endogene ed esogene che intervengono ed incidono sul paziente.

            In particolare nei tre trattamenti falliti (F.M.; S.M.; V.C.) è stato rilevante il comportamento delle famiglie che hanno disatteso le indicazioni della struttura circa il precoce abbandono della stessa da parte dei loro congiunti. In questi ed in altri casi si assiste ad una sorta di proliferazione per induzione (familiare) dei comportamenti patologici del soggetto che vengono assecondati o in qualche modo involontariamente favoriti.

            Abbiamo rilevato come i disturbi di personalità presentino, oltre ad un ‘area franca di sintomi e comportamenti preordinati con caratteristiche di stereotipia, una zona d’apprendimento sull’utilizzo dei sintomi. Il paziente, in altre parole, è ben consapevole di poter suscitare ansia, paura, arrendevolezza o pietà nell’interlocutore. Quando ciò è risultato efficace il soggetto si autorinforza a produrre i sintomi per manipolare l’ambiente, rendendo difficoltoso il distinguo tra accesso ed utilizzo dei repertori sintomatologici per ottenerne dei vantaggi. Ciò costituisce un problema di cospicua rilevanza nel trattamento.

            MCGiNN, YouNG e SANDERsoN (1995) hanno ritenuto che la terapia cognitiva di Beck non fosse un trattamento efficace per chi presenta un d.d.p.. Le critiche a queste conclusioni riguardano l’aver preso in considerazione uno studio che BECK ha sviluppato sui pazienti depressi. In realtà la nostra esperienza con la comorbilità sembrerebbe dimostrare che la psicoterapia cognitivo — comportamentale in ambiente protetto può risultare assai utile rispetto ad altre terapie psicologiche o a terapie unicamente farmacologiche. Il nostro campione proveniva infatti da tali approcci integrati. Sei su undici provenivano da altre comunità. Di questi 2 hanno avuto un esito negativo.

            Le linee guida per il trattamento cognitivo — comportamentale dei d.d.p. sviluppate da PRETZER e BECK (1996) riguardano sinteticamente 12 aspetti:

Formazione Psichiatrica n. 1 e 2 Gennaio-Giugno 2007

 

1. L’intervento va contestualizzato individualmente.

2. Paziente e terapeuta dovrebbero lavorare con obiettivi concordati ed esplicitati.

3. Fondamentale è il focus sulla relazione terapeutica.

4. Iniziare con interventi esplorativi non eccessivamente invasivi per il paziente.

5. Puntare sugli interventi di auto-efficacia per migliorare i sintomi e da qui altri interventi.

6. Non limitarsi ad interventi verbali.

7. Definire le paure del paziente che ostacolano i cambiamenti.

8. Aiutare il paziente alla gestione delle emozioni indesiderate.

9. Mettere in conto che nel corso del trattamento emergeranno problemi di compliance.

10. Non presupporre che il paziente viva nel miglior ambiente possibile.

11. Monitorare le proprie reazioni emotive nel corso del trattamento.

12. Essere onesti e realistici circa la durata della terapia, agli obiettivi raggiungibili ed ai parametri di valutazione del lavoro terapeutico.

            Si tratta d’indicazioni di buona prassi terapeutica utili soprattutto a pazienti incostanti, inclini alle oscillazioni d’umore, pretenziosi, in sfida perenne oppure in una posizione di delega critica al terapeuta, quadro tipico dei disordini strutturali di personalità. Ogni intervento dovrebbe mirare anche a chiarire il “funzionamento del paziente” scorporandolo da ogni indugio su un giudizio di valore relativo all’emissione di comportamenti disfunzionali. I sensi di colpa non aiutano al superamento di nessuna condizione psicopatologica.

            Ovviamente più che le tipologie di cluster dei d.d.p. ciò che sembra incidere sulla prognosi di una psicoterapia concerne quattro aspetti fondamentali:

- l’ampiezza del disturbo;

- la sua durata e frequenza;

- i fattori rinforzanti;

- i tentativi terapeutici non andati a buon fine.

            Alcuni disturbi si sono incestati nel funzionamento individuale in maniera pervasiva. Altri costringono il paziente a frequenti emissioni di acting out – anche sotto soglia – talora invalidanti.

            I congiunti attorno al paziente possono inoltre involontariamente amplificare il disturbo e d’altra parte i tentativi di cura falliti prostrano il paziente specie se, come nella doppia diagnosi, la qualità di vita si riduce sino a diventare scadente.

            Fondamentale per il buon esito di un trattamento l’acquisizione di abilità sociali ed emotive e l’esercizio continuo dei repertori comportamentali alternativi a quelli ripetitivi e disfunzionali. Molto utili le confutazioni “carta e penna”, attraverso modulistiche di analisi degli schemi di pensiero. Un buon programma terapeutico non dovrebbe prescindere da questo pacchetto di capacità asserti

Cafiso R.: Il trattamento psicoterapeutico dei disturbi di personalità in comunità.

            Sui disturbi di personalità la letteratura non è abbondante. Negli ultimi anni qualche studio ha cominciato a squarciare il buio epistemologico e clinico. Gli studi convergono nell’evidenza che i trattamenti andati a “buon fine” sono quelli in cui il paziente ha portato a termine la terapia, collaborando col terapeuta anche attraverso un “buon legame” (problema della maggior parte dei d.d.p.). E probabile, allo stato attuale, che un soggetto con un problema rilevante sull’asse II debba in qualche modo essere trattato per molti anni e monitorato stabilmente per evitare le frequenti recidive.

RIASSUNTO

            I disturbi di personalità rappresentano un’area patologica in cui la possibilità che una psicoterapia cognitivo-comportamentale possa incidere positivamente dipende da molti fattori. I disturbi ben curati sull’asse I, si complicano se sull’asse II è presente un disordine strutturale, sino a vanificate l’efficacia del trattamento. Tuttavia esperienze condotte in comunità terapeutica dimostrano che è possibile, in tempi comunque non brevi, migliorare e mantenere nel tempo la condizione clinica di base. Resta allo stato attuale la carenza di studi affidabili sul trattamento psicoterapico dei disturbi di personalità, anche se oggi la convergenza di metodologie di tipo cognitivo concorre a definire modelli più definiti ed affidabili.

SUMMARY

            The troubles of personality represent a pathological area in which the possibility that a psychotherapy cognitive-behavioural can positively engrave it depends on many factors. The well taken care of troubles on the axle The, are complicated if on the axle II is present a structural disorder, actually to frustrate effectiveness of the treatment. Nevertheless experiences conducted in therapeutic community show that it is possible, in times however not brief, to improve and to maintain in the time the clinical condition of base. It stays to the actual state the lack of reliable studies on the treatment psychotherapeutic of the troubles of personality even if today the convergence of methodologies type cognitive competes to define models more defined and reliable

Formazione Psichiatrica n. 1 e 2 Gennaio-Giugno 2007

 

BIBLIOGRAFIA

BECK A.T., FREEMAN A., PRETZER J. e altri, Cognitive Therapy of the personality disorders. Guilford. New York, 1990.

CAFISO R., La doppia diagnosi nelle dipendenze. Lezione integrative di Clinica Psichiatrica, vol. 2°, Quaderno n. 26 di Formazione Psichiatrica. Catania, 2006.

CAFISO R., La strada della ragione. Psicologia Contemporanea n. 119, 1993.

CLARKIN J.F., LENZENWENGER M.F., I disturbi di personalità. Raffaello Cortina ed., 1997.

GASPERINI M., PROVENZA M., RONCHI P., SCHERILLO P., BELLODI L., SMERALDI E., Cognitive processes and personalità disorders in affectivepalients. Joural of Personalità Disorders, 3, 1989.

PERRIS C., MC GoRRY P., Psicoterapia cognitiva dei disturbi psicotici e di personalità. Masson, 2000.

PRETZER J.L., Borderline personalità disorder: too complex for cognitive behavioral approaches? Paper presented at the meeting of the American Psychological Association, Anaheim CAAugust, 1983.

TURKAT I.D., LEVIN R.A., Formulation ofpersonality disorders. In ADAM H.E. e SUKTER P.B. eds, Comprehensive Handbook ofPsychopathology. Plenium. New York, 1984.

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1 to “Il trattamento psicoterapico dei disturbi di personalità in comunità (R. Cafiso)”


  1. Paolo Busdraghi scrive:

    Buongiorno Prof. Cafiso, ho letto con attenzione il Suo importante lavoro, dove emerge, anche in relazione al caso di Bruno, la necessità di associare al “buon legame” paziente/terapeuta il mantenimento costante del monitoraggio stabile per evitare le frequenti recidive. Assunto in primis che tale condizione, fondamentale, pur inizialmente ben radicata e funzionale, possa essersi vanificata nel tempo, è possibile “rigenerarla” nel breve periodo e per di più con i medesimi operatori? Pongo il quesito perché sono convinto che la Comunità “Rinascita” sia un unicum per il “case history” di Bruno e domani vi sarà l’incontro con la Dr.ssa Giovanna Diotallevi a Pesaro. I miei più sinceri complimenti per il lavoro scientifico, cordialmente. Paolo Busdraghi



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