Psiche e passività lavorativa

PSICHE & SOCIETA’

di Roberto Cafiso

 

Di disoccupazione ci si ammala. E non solo per la  nota  “sindrome da stress economico”, ma perché l’inattività si auto incentiva  e pone gli individui in una condizione di  abbandonata impotenza , come in uno stato crepuscolare. Un tempo si definiva il “dolce far nulla” o si parlava dell’ “ozio come  padre dei vizi”:  tutte espressioni  oltraggiose di questi tempi,  come quella di “fannulloni”.  Ma di fatto l’inattività protratta è spesso la causa di un disimpegno che diventa modus vivendi.

 

Il meccanismo è semplice ancorché  perverso. Non lavorando ci si arrangia, si fa fondo alle residue economie, oppure ci si aggrappa ai risparmi di genitori, nonni o zii. Legittimati dalla recessione economica ci si accontenta, comprimendo le esigenze materiali pur senza insopportabili rinunce . E si vivacchia, passivamente  mantenuti,  incentivati da una  benevolenza che travia e demotiva.

 

L’occupazione per alcuni resta molto un diritto e poco  un dovere. Accade quando  la sua ricerca è commisurata solo alle aspirazioni personali  e non  all’analisi realistica della domanda di mercato. Il lavoro non piove dal cielo e restando assolutamente indisponibili ad adattarsi a qualcosa che pur non esaltando  consenta un minimo di autonomia, si scartano proposte  ed occasioni.  Così quando il bisogno diventa pretesa e ci si abitua al  tiepido vento dell’inattività, il rischio è di restare intrappolati nel disinteresse e nella mancanza di progettualità.

 

Le giornate tutte eguali infiacchiscono e a poco serve la costruzione di curriculum congegnati in ore di computer  ( con escursioni divaganti su internet o sui social network) . Quando si passa il tempo ad intrecciare il vento  è in agguato il virus della rinuncia, ove nulla va bene e si procrastina con mille giustificazioni l’esordio lavorativo, nella  regressiva prigionia dell’attesa della giusta occasione ,  scandita dalla sveglia in tarda mattinata dentro un mondo sotto le coperte.

 

L’asserire a tutti che non si vede l’ora di trovare “qualcosa di decente”  non risulta dirimente il dubbio che ci si sia ammalati d’inattività, adattati ad un rassegnato stallo dell’impegno, dispersi in una nebbia abulica che rende sempre più  inadatti, lamentosi, inermi ma esigenti.  Se non è autocommiserazione  è comunque un bavaglio alla  dignità. Non si vive di lavoro, ma il lavoro è necessario per vivere. E c’è chi ne scarta a dozzine pur in tempi di carestia, ovvero non sa mantenerli perché insofferente e fumantino ad ogni richiesta  del capo considerata ingiusta o eccessiva.

 

Ammalarsi di disoccupazione vuol dire desistere  e non saper disegnare il proprio futuro affidandolo alla buona sorte. Un’ anticamera della depressione e dell’ipocondria,  sostenute dall’evitamento e dal rifugio nella nicchia familiare, unica oasi possibile. A rotoli anche i rapporti personali,  in un fermo esistenziale ove sono mancate  le esortazioni a non assecondare l’indolenza poi diventata  stile di vita.

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